giovedì 28 febbraio 2013

Mantakas, quel greco “fascista” che venne a morire a via Ottaviano


da secoloditalia.it

Se fosse vissuto, oggi Mikis Mantakas sarebbe un signore alla soglia dei sessant’anni, forse in procinto di andare in pensione dopo una vita passata in qualche ospedale greco, o italiano, giacché era iscritto a medicina. Era nato ad Atene nel 1952. Ma le cose andarono in maniera molto diversa, e quel 28 febbraio del 1975 fu l’ultimo giorno della sua vita. E gli ultimi istanti della sua esistenza li trascorse sdraiato in un box privato, un garage, vegliato da Stefano Sabatini, un giovanissimo attivista della sezione Prati, che dopo che lo aveva visto cadere colpito da un proiettile, lo aveva trascinato al riparo per sottrarlo alla furia omicida che stava imperversando di fuori. E non sembri un’esagerazione, c’era davvero l’inferno in piazza Risorgimento quel giorno. Quella settimana si stavano tenendo al vicino tribunale di piazzale Clodio le udienze del processo Primavalle, quello in cui si giudicavano gli assassini dei fratelli Mattei, Stefano e Virgilio, bruciati vivi nella notte nella loro casa dagli attivisti di Potere Operaio Lollo, Clavo e Grillo (e forse altri). Gli estremisti di sinistra avevano deciso che i fascisti non avrebbero neanche potuto assistere al processo, e si mobilitarono in maniera massiccia, militare, per dar vita a scontri. Scontri che iniziarono il 24 febbraio mattina e andarono avanti sino a quel 28, quando missini e gruppettari si videro davanti al tribunale alle sei del mattino. La notte prima un commando di Lotta Continua aveva assaltato la “palestra” di Angelino Rossi a volto coperto e con bombe incendiarie: ma ci fu un’altra vittima in quei giorni, un commissario di polizia che fu stroncato da un infarto mentre era lì in servizio, e che nessuno ricorda mai, Pietro Scrifana. Gli estremisti di sinistra erano pesantemente armati: pistole e bombe molotov a decine. E le usarono. Un dirigente del Fronte della Gioventù fu bersagliato da colpi di pistola, ma ebbe fortuna. Dopo alcune scaramucce dentro e fuori il tribunale, nel corso delle quali fu anche identificato Alvaro Lojacono (per uno scontro con un attivista missino del Prenestino), che successivamente sparò davanti la sezione di via Ottaviano 9. Secondo un disegno che a posteriori appare chiaro, alcune centinaia di comunisti ingaggiarono violenti scontri con la polizia, per permettere a un centinaio di loro, armati, di dirigersi verso la sede del Msi di via Ottaviano, presidiata da una trentina di attivisti, quasi tutti molto giovani. A quanto ricordano i testimoni, quelli di Potere Operaio spararono molti colpi di pistola contro il gruppo dei missini, i quali entrarono e uscirono un paio di volte dal portone, e fu nella seconda occasione che Mantakas fu colpito alle testa. Un altro ragazzo, Fabio Rolli, fu ferito a un polmone, ma lì per lì nessuno si accorse di nulla. Ci fu poi il lancio di molotov e l’assalto vero e proprio, sempre pistole in pugno. A quel punto alcuni riuscirono a rifugiarsi dentro la sede, altri rimasero fuori. Per giunta, in quei momenti mancò (o fu staccata) la luce cosicché la porta elettrica della sezione non si poteva più aprire. Un ragazzo che era lì dentro ricorda che al buio si sentivano grida, odore di benzina, terrore di finire come i Mattei, tentativi di armarsi con gambe di sedie e effettuare una sortita. Frattanto il dramma si era compiuto. I gruppettari avevano attaccato il portone dello stabile per entrarvi, così l’esanime Mantakas, nel frattempo colpito anche da una molotov il cui fuoco fu spento con le mani dai presenti, fu trascinato nel box da Stefano e da altri ragazzi, che poi chiuse la serranda. A un certo punto gli estremisti irruppero nel cortile e spararono diversi colpi di pistola contro il box attiguo, che era quello più vicino all’entrata. A quel punto il fumo, il rumore, gli spari avevano attirato l’attenzione delle forze dell’ordine, che peraltro non avevano neanche ritenuto di presidiare la sezione del Msi che era un obiettivo tutto sommato da considerare. Arrivò la polizia, con gran stridore di gomme, ma era troppo tardi: un’ambulanza dei vigili del fuoco portò Mantakas all’ospedale ma poche ore dopo, durante o subito dopo l’operazione alla testa, Mikis morì. Frequentava il Fuan di via Siena da qualche mese. Aveva conosciuto i ragazzi della destra universitaria al bar Penny, lì davanti, tra cui Umberto Croppi, col quale era andato quella fatidica mattina a piazzale Clodio e col quale era amico. Poco dopo fu arrestato Fabrizio Panzieri di Potop, mentre usciva con aria indifferente da un portone poco distante. Testimonianze di giovani missini poi individuarono in Lojacono quello che aveva sparato. Mantakas si era trasferito a Roma perché all’università di Bologna era stato aggredito dagli estremisti di sinistra davanti a biologia, che lo mandarono all’ospedale per quaranta giorni. Ai funerali nella chiesa di Santa Chiara, in piazza della Minerva a Roma, c’erano migliaia di persone, e quasi tutte giovani. Persino in quell’occasione gli estremisti, usciti dalla sede del Pdup, tirarono una bomba molotov contro l’automobile guidata dall’allora segretario provinciale del FdG Buontempo, che riuscì a fuggire. Nel marzo del 1977 ci fu la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio per Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove, per Lojacono. Il processo di secondo grado, nel 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione bloccò l’esecutività della sentenza per Lojacono che rimase in libertà per poi fuggire in Algeria, e poi in Svizzera assumendo il cognome della madre. Lojacono nel 1978 era nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Tartaglione. La Svizzera non concesse mai l’estradizione e nel 1999 divenne un uomo libero. Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si dette alla latitanza. Nel 1982 fu condannato a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Forse è in Nicaragua, dove c’è anche Grillo, quello del rogo di Primavalle.

Avanti tutta, senza paura


Il debutto della destra che va subito in gol 1,91%



da ilgiornale.it 

 Roma - Ventimila adesioni al giorno, un'alleanza decisiva per l'affermazione del Cavaliere e un 1,9 per cento alla Camera che in soli 40 giorni dalla fondazione del movimento garantisce un rappresentante in parlamento: Giorgia Meloni. Lei sì, Fini no. Tu chiamale, se vuoi, emozioni. E oggi si riparte anche senza tutti quei gazebo da 558mila voti al Senato (meno di un decimo delle sezioni da scrutinare) e 546mila (stessa percentuale) alla Camera. Al quartier generale di Fratelli d'Italia-Centrodestra nazionale ci si guarda soddisfatti, «in fondo - twitta La Russa - abbiamo racimolato la metà dei voti della Lega, mica male come inizio e in così poco tempo». All'orizzonte l'instabilità politica. «Instabilità che non gioverebbe di certo alla nazione. Ma le facce allibite della sinistra che credeva di vincere facile e invece ha preso la scoppola... che goduria». A commentare a caldo è Giovanni Donzelli, consigliere regionale in Toscana, tra i fondatori di Fratelli d'Italia e primo a riaccendere il cellulare. È sorpreso, come tutti, dai risultati. Al momento di andare in stampa il movimento è impantanato all'1,9 - Camera e Senato - ma avrà comunque un deputato come primo degli esclusi sotto il 2 per cento. Quanto basta e avanza per promuovere l'esordio. «A due mesi dalla fondazione siamo all'1,9 per cento, come primo step non possiamo lamentarci - continua Donzelli -. È come se fosse nato un bambino che ora deve muovere i primi passi, il progetto di rinnovamento del centrodestra italiano è cominciato». Ma non parlategli di patti allargati, di compromessi, di governi tecnici. «Una nostra adesione a una eventuale alleanza con il PD e il Pdl non è ipotizzabile, non se ne parla. Come non appoggeremmo un altro professore premier. Meglio tornare a votare subito». Nel frattempo i vertici commentano sornioni. Meloni e La Russa si godono i visi pallidi. Ignazio ironizza: «Che soddisfazione le facce della sinistra, avevano lo stesso colorito giallo del 1994, quando la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto si infranse contro un muro. Sono orgoglioso della scelta di fondare Fratelli d'Italia. Questo è stato un vero miracolo, in 40 giorni abbiamo preso più voti dell'Udc e di Ingroia (con Di Pietro). Di Fini, poi, non ne parliamo. Avessimo avuto la visibilità di Fini, Casini e Ingroia avremmo fatto boom». Ma il vero grande sconfitto di queste elezioni è Mario Monti: «L'uomo che ha mancato di parola agli italiani candidandosi alle politiche». L'ex ministro se la prende anche con la truffa degli exitpoll: «Vorrei proprio sapere chi spende soldi per gli exit poll...». Crosetto, orfano delle sue sessanta sigarette, aveva pronosticato il Grillo-boom: «Sta accadendo quello che si sentiva. Avevo detto che Beppe Grillo superava il 25 per cento, e lo farà alla Camera. Perchè è stato l'alveo in cui si è fermata la rabbia della gente di questo Paese, che è tanta».

Niente azzardi con i soldi degli italiani


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